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Incion. Poesie in dialetto Romagnoli 1984-2016
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Questa che qui proponiamo – con la partecipazione complice, cólta e commossa di Giuseppe Bellosi, che ne cura i testi con l’acribia e la ricchezza dello studioso di rango e ne stende una coinvolgente presentazione critica – è la testimonianza di una delle più alte prove della poesia italiana del secondo Novecento e dei primi anni del nuovo secolo, scritta nella lingua della Romagna.
Lontana dalla poesia del ricordo e degli abbandoni alla dolcezza dei sentimenti e agli struggimenti della nostalgia cui molti indulgono, rappresenta con una dolorosa intensità il dramma dell’uomo contemporaneo, smarrito nei deserti degradati della mondializzazione, del si dice e si fa quel che i padroni del mondo vogliono si dica e si faccia, senza più radici, senza più l’unanimismo educato da un senso della comunità ora perduto: siamo una «numerosa solitudine» – come Ungaretti, un poeta caro a Nadiani, aveva evocato con fulminante consapevolezza – e perciò privi di identità, di conoscenza del sé e dunque della libertà, che possiamo garantirci solo se sappiamo chi siamo. Così, il poeta potrà chiedersi dove egli sia («E me in d’a soia») ora che non conosce più nessuno e nessuno più lo conosce («Incion ch’am cnosa»), e dunque un forestiero a casa sua, deserto di memoria e di riferimenti, e la cui stessa lingua è una lingua sconfitta. Ma veda il lettore con quanta forza di rappresentazione il poeta affidi a quella sua parola moribonda un intero mondo e come non cessi di coltivare la speranza [Roberto Casalini].
Lontana dalla poesia del ricordo e degli abbandoni alla dolcezza dei sentimenti e agli struggimenti della nostalgia cui molti indulgono, rappresenta con una dolorosa intensità il dramma dell’uomo contemporaneo, smarrito nei deserti degradati della mondializzazione, del si dice e si fa quel che i padroni del mondo vogliono si dica e si faccia, senza più radici, senza più l’unanimismo educato da un senso della comunità ora perduto: siamo una «numerosa solitudine» – come Ungaretti, un poeta caro a Nadiani, aveva evocato con fulminante consapevolezza – e perciò privi di identità, di conoscenza del sé e dunque della libertà, che possiamo garantirci solo se sappiamo chi siamo. Così, il poeta potrà chiedersi dove egli sia («E me in d’a soia») ora che non conosce più nessuno e nessuno più lo conosce («Incion ch’am cnosa»), e dunque un forestiero a casa sua, deserto di memoria e di riferimenti, e la cui stessa lingua è una lingua sconfitta. Ma veda il lettore con quanta forza di rappresentazione il poeta affidi a quella sua parola moribonda un intero mondo e come non cessi di coltivare la speranza [Roberto Casalini].
